Fast fashion: cosa si nasconde dietro il mercato della moda a basso costo - Borsa&Finanza

Fast fashion: cosa si nasconde dietro il mercato della moda a basso costo

Un negozio di fast fashion

Cos’è il fast fashion

? È il fenomeno della moda che costa poco, l’abbigliamento veloce che passa in un batter d’occhio dalle passerelle delle sfilate ai punti vendita commerciali. Con questo termine si identificano tutti quei vestiti di medio-bassa fattura che si acquistano a prezzi contenuti nei negozi delle grandi catene: tra i marchi globali più noti spiccano Benetton, H&M, Zara, Temu, Mango, Napapirji, OVS, Original Marines, Pull & Bear, River Island, Shein, Uniqlo, soltanto per citarne alcuni. Ma com’è reso possibile il fenomeno della moda express?

 

Fast fashion: cos’è e cosa si nasconde dietro

Il processo produttivo nel mercato del fast fashion si basa sulla realizzazione rapida degli abiti, ottimizzando la catena di produzione e distribuzione che deve essere velocissima per rispondere in maniera reattiva alle novità dello stile. Gli operatori express realizzano abiti di qualità medio-bassa che replicano i modelli delle maison famose, valutano con i loro team di progettazione le previsioni di tendenza e le esigenze del pubblico e riforniscono i punti vendita al dettaglio a prezzi molto ridotti. Non solo con maglie e maglioni, camicie e giacche, jeans e scarpe: anche cinture, borse e accessori.

L’elemento chiave del fast fashion è la disponibilità immediata in negozio delle nuove collezioni. Una linea che viene presentata alla Settimana della moda ogni anno in primavera e in autunno, nel giro di un paio di settimane arriva negli store ed è disponibile per tutti i consumatori. Il processo continua così a ciclo continuo, fino al riassortimento successivo e al rinnovo non stop delle collezioni. È in questo modo che i clienti trovano sugli scaffali magliette vendute a 5 euro, un abito lungo a meno di 10, pantaloni a 15 e giacche a 20: le ultime tendenze del momento ad un prezzo competitivo, per vestirsi bene e sempre diversamente spendendo poco.

Il modello di business del settore si basa sul cosiddetto QRM (quick response method), il metodo di risposta rapida. I brand rimuovono il tempo dal sistema di produzione, riducendo drasticamente la finestra tra design e produzione di un prodotto, vendita e rifornimento. Le novità sono lanciate una dietro l’altra, sfruttando le tecnologie per aumentare efficienza e produttività: un’autentica rivoluzione nel settore retail. La riduzione dei tempi, infatti, aumenta la disponibilità di capi a disposizione del cliente, il quale si presenta più volte in un anno all’interno di un punto vendita. A differenza delle stagioni dell’alta moda, autunno/inverno e primavera/estate, il fast fashion ha cicli tra le 2 e le 6 settimane, fino a 50 micro-collezioni all’anno.

Un'industria tessile asiatica del fast fashion
Quanto costa il fast fashion? La filiera tessile e il dumping salariale (foto: Rio Lecatompessy su Unsplash)

Per accelerare la distribuzione ed arrivare al più presto in negozio, le aziende del fash fashion abbattono i costi di produzione appaltando la realizzazione dei vestiti a società di tessuti e indumenti in nazioni dove la manodopera locale costa pochissimo. Si spiegano così le varie provenienze made in Bangladesh, Vietnam o Cina che si leggono sulle etichette. In media, è stato calcolato che in questi Paesi il costo per la produzione di dieci T-shirt è di 5,34 euro per unità.

La moda low cost riesce a coinvolgere ampie fasce di pubblico che vogliono stare al passo coi tempi e rinnovare il proprio guardaroba senza spendere troppo. Alcuni capi di abbigliamento acquistati nelle grandi catene di distribuzione possono durare anche anni, ma nella maggior parte dei casi sono usati e buttati molto più in fretta rispetto a quanto si facesse una volta. Il giro d’affari del fast fashion, stando alle stime della società di analisi e ricerca Statista, è di oltre 120 miliardi di dollari a livello globale.

La leva e motore trainante del fast fashion è il marketing: grazie alle massicce e ficcanti campagne promozionali, i brand inducono un desiderio nel consumatore e parallelamente lo soddisfano nel minor tempo possibile. La filosofia della risposta rapida poggia su una filiera progettata per questo: i fornitori distanti sono usati per i vestiti capsula (per ogni stagione) e i vicini per la metà stagione; le merci si spostano istantaneamente; i venditori sono selezionati con cura, i magazzini devono essere sempre smaltiti e non presentare stock in eccesso. In tal modo, i marchi ottengono notevoli margini di profitto: si calcola che la loro percentuale di ribasso dei prezzi è appena del 15% rispetto al 30% della concorrenza.

 

Inquinamento e non solo: i problemi del fast fashion

Presentato e promosso come un processo di democratizzazione della moda, il fast fashion in realtà presenta numerose distorsioni, a partire dallo sfruttamento umano. Per sostenere i ritmi di produzione, le catene si rivolgono a Paesi dove il costo del lavoro e della manodopera è molto basso e lavoratrici e lavoratori (tra cui minori) vengono sottopagati con salari da fame e nessuna garanzia. È significativo il caso della tragedia del Rana Plaza, un palazzone alla periferia di Dhaka crollato nel 2013 provocando la morte di 1.134 lavoratrici del settore tessile. Inoltre, sfornando una raffica di capi d’abbigliamento a getto continuo, la mode éphémère (così la chiamano i francesi) alimenta il consumismo e le abitudini di acquisto compulsivo dei consumatori.

Negli stabilimenti d’origine della moda express non si utilizzano tessuti ecologici, realizzati da fibre naturali e materiali riciclati. La maggior parte degli indumenti è cucita in poliestere (una fibra sintetica derivata dal petrolio, non biodegradabile e poco traspirante) e in cotone, un materiale che non è inquinante ma che lo diventa per la lavorazione che sfrutta grosse quantità di acqua e pesticidi. I mix tessili servono per abbassare i costi, ma la separazione per il riutilizzo è complessa e laboriosa. Si stima che il fash fashion sia responsabile dell’uso del 4% dell’acqua potabile disponibile nel mondo e di tonnellate di emissioni di anidride carbonica: 2,2 chilogrammi soltanto per una maglia.

Chiuso il ciclo di produzione e distribuzione, c’è la questione della sostenibilità: lo smaltimento di queste montagne di vestiti. Le cattive abitudini legate allo shopping sfrenato spingono le persone ad acquistare una quantità eccessiva di abiti economici e quindi di breve durata. Molti vengono buttati via ogni giorno in svariate parti del mondo e spesso sono gettati in enormi discariche illegali perché la quantità è eccessiva e la qualità troppo scadente, contribuendo in maniera decisiva alla crisi climatica. Tra produzione e consumo, l’industria della moda genera fino all’8% delle emissioni globali di Co2 ed è il secondo consumatore di risorse idriche al mondo.

Di fronte a queste problematiche, le catene stanno cercando soluzioni più sostenibili come la riduzione delle materie prime a base di petrolio e non riciclabili, il riutilizzo dei materiali di scarto e la riduzione dei rifiuti nella catene di approvvigionamento. Per sensibilizzare a una produzione e a un consumo responsabile, il regista indipendente Andrew Morgan ha dedicato al fenomeno della moda usa e getta il documentario Il vero costo (The True Cost),  disponibile in streaming su varie piattaforme. Il film è parte dell’iniziativa Fashion Revolution, il movimento no-profit globale che chiede all’industria della moda di rispettare le lavoratrici e i lavoratori, l’ambiente, la creatività e il profitto. Come continua a ripetere Kate Fletcher, la ricercatrice britannica più citata nel settore, “sarebbe molto più sostenibile semplicemente produrre e comprare meno vestiti: ma questo è un messaggio che nessuno vuole sentire”.

I grandi gruppi del settore hanno cominciato percorsi di trasformazione sostenibile, così come le istituzioni. Svezia, Francia e Paesi Bassi hanno una norma EPR (Extended Producer Responsibility, il principio della responsabilità estesa del produttore) che include diversi indumenti e tessuti, in Italia è al vaglio una proposta di legge in merito. Per cercare un’armonizzazione comune, l’Unione europea sta lavorando a una proposta di EPR condivisa. La Commissione prevede che “i produttori copriranno i costi di gestione degli scarti tessili, il che darà loro anche incentivi per ridurre gli sprechi e aumentare la circolarità delle stoffe, progettando prodotti migliori fin dall’inizio” e che “l’importo che i produttori pagheranno al sistema EPR sarà adeguato in base alle prestazioni ambientali dei tessili”. L’obiettivo è convertire il segmento in ottica circolare e “rendere fuori moda il fast fashion”.

AUTORE

Picture of Alessandro Zoppo

Alessandro Zoppo

Ascolta musica e guarda cinema da quando aveva 6 anni. Orgogliosamente sannita ma romano d'adozione, Alessandro scrive per siti web e riviste occupandosi di cultura, economia, finanza, politica e sport. Impegnato anche in festival e rassegne di cinema, Alessandro è tra gli autori di Borsa&Finanza da aprile 2022 dove si occupa prevalentemente di temi legati alla finanza personale, al Fintech e alla tecnologia.

ARTICOLI CORRELATI