Chi pensa di essere stato licenziato e di aver perso il posto ingiustamente può procedere all’impugnazione del licenziamento, un atto formale attraverso cui il lavoratore o la lavoratrice fa ricorso contro le ragioni addotte dal datore di lavoro. Questo procedimento è applicabile esclusivamente nei casi di licenziamento illegittimo: l’azienda ha sempre ragione quando si tratta di licenziamenti per giusta causa o per giustificato motivo oggettivo, a meno che un giudice non valuti insussistente la giusta causa o il determinato motivo.
Impugnazione licenziamento: come fare ricorso
Il licenziamento illegittimo è spesso e volentieri legato ad una discriminazione del lavoratore, a una rappresaglia o all’allontanamento di una lavoratrice durante la gravidanza, un periodo tutelato dalla legge italiana sul mercato del lavoro. Per contestare la decisione del datore di lavoro, il lavoratore deve inviare all’azienda un documento noto come impugnazione stragiudiziale: una lettera in cui impugna formalmente il licenziamento intimato con una comunicazione ufficiale poiché ritenuto illegittimo, invalido, inefficace, discriminatorio o nullo.
L’impugnazione del licenziamento è disciplinata dalle leggi n. 183 del 4 novembre 2010 e n. 92 del 28 giugno 2012 (la riforma Fornero), in riforma della Legge n. 604 del 15 luglio 1966. Il passo successivo all’impugnazione stragiudiziale è l’impugnazione giudiziale, cioè il deposito del ricorso davanti al Tribunale. Arrivati a questo punto, il giudice fissa l’udienza di comparizione nei 40 giorni successivi. È il lavoratore a dover comunicare all’azienda con almeno 25 giorni d’anticipo il giorno in cui si terrà l’udienza. Dopo aver ascoltato le parti in causa, ammesso le prove e sentito i testimoni, il giudice accoglie o respinge la domanda del lavoratore licenziato. Se il lavoratore è stato licenziato illegittimamente, può ottenere un indennizzo economico a titolo di risarcimento oppure il reintegro in azienda nel posto da cui è stato allontanato.
Con l’introduzione del Jobs Act (il decreto legislativo n. 23 del 4 marzo 2015), per il lavoratore è preferibile ottenere un’indennità piuttosto che il reintegro. L’indennizzo economico varia a seconda degli anni di servizio del lavoratore, corrisponde a due mensilità per ogni anno di servizio e può andare dalle 4 alle 24 mensilità, anche nei casi di licenziamento collettivo. Se il lavoratore è stato licenziato senza giusta causa o per vizi procedurali, l’indennizzo oscilla in un range tra un minimo di 2 mesi e un massimo di 12 mesi. Quando il licenziamento illegittimo avviene in società con meno di 15 dipendenti, l’indennizzo arriva fino a un massimo di 6 mensilità.
Il reintegro, accompagnato da un indennizzo fino ad un massimo di 5 mensilità dal giorno del licenziamento, avviene se sussistono motivi razziali e discriminatori, un matrimonio, una maternità o una gravidanza, una disabilità fisica e psichica o il licenziamento è stato comunicato in forma orale e non scritta. Il reintegro avviene pure quando è dimostrata l’insussistenza della ragione disciplinare dietro la giusta causa o il determinato motivo o quando il lavoratore dimostra che il fatto che ha causato il licenziamento non sussiste. In quest’ultimo caso, al reintegro si accompagna un risarcimento pari alla retribuzione del lavoratore, non superiore a 12 mesi.
Sia l’azienda che il lavoratore, a seconda della decisione del giudice, hanno 30 giorni di tempo per opporsi all’ordinanza e presentare ricorso alla Corte d’Appello, accompagnato dal deposito di una memoria difensiva. A ricorso accolto, il giudice fissa una seconda udienza di comparizione, nei 60 giorni successivi, che deve sempre essere comunicata alla controparte con almeno 30 giorni d’anticipo. In secondo grado, il giudice stabilisce l’accoglimento o il respingimento della domanda. Il terzo e ultimo grado è davanti alla Cassazione: in questo caso, l’udienza è fissata entro 6 mesi dalla data in cui è stato presentato il ricorso dal lavoratore.
Quando fare l’impugnazione del licenziamento: i tempi
La legge stabilisce un duplice termine per impugnare il licenziamento:
- 60 giorni (di calendario, non lavorativi) dalla ricezione o notifica della lettera di licenziamento (impugnazione stragiudiziale);
- ulteriori 180 giorni per depositare il ricorso giudiziale contro l’atto di licenziamento nella cancelleria del Tribunale.
Decorsi questi due termini, il lavorare non può più contestare la decisione presa dal datore di lavoro, a differenza di quanto accadeva in passato quando c’erano 5 anni di tempo per proporre ricorso al giudice. Inoltre, l’impugnazione stragiudiziale non ha efficacia se, nei successivi 180 giorni, non si deposita il ricorso presso la cancelleria del Tribunale. Si considerano 180 giorni quelli che cominciano dal giorno in cui è stata effettivamente presentata l’impugnazione stragiudiziale. La Suprema Corte ha infatti stabilito che il termine di 180 giorni per il deposito del ricorso decorre dalla data di spedizione della stragiudiziale, cioè dall’invio della lettera di impugnazione del licenziamento. Dal lato del datore di lavoro, i giorni di tempo sono 15 da quando ha ricevuto la comunicazione dell’impugnazione del licenziamento per poterlo revocare.
Dunque, quando il lavoratore riceve la raccomandata con la lettera di licenziamento, ha 60 giorni di tempo entro cui spedire a sua volta al datore di lavoro un atto scritto (è consigliabile una raccomandata) con l’impugnazione stragiudiziale, ovvero una lettera in cui contesta il licenziamento perché ritenuto illegittimo. A mandare l’impugnazione stragiudiziale può essere il lavoratore stesso, il suo avvocato oppure il sindacato al quale aderisce. In seguito, entro 180 giorni dalla spedizione della lettera di licenziamento, occorre avviare l’impugnazione giudiziale del licenziamento, ossia la causa contro l’azienda o il datore di lavoro, depositando in Tribunale l’originale dell’atto di ricorso.
L’alternativa all’impugnazione giudiziale e alla causa in Tribunale è il tentativo di conciliazione e di arbitrato, con l’ILT (l’Ispettorato Territoriale del Lavoro) a fare da mediatore. In passato, il tentativo di conciliazione era obbligatorio prima di arrivare davanti a un giudice. Ora, sempre nel termine dei 180 giorni, il lavoratore può far convocare l’azienda presso la commissione di conciliazione che ha emesso l’atto di certificazione e cercare un accordo tramite avvocato, sindacato e ispettorato oppure chiedere che sia costituito un collegio arbitrale. Se non si arriva a una conciliazione o il datore di lavoro non si presenta alla chiamata, si può fare ricorso al giudice del lavoro entro 60 giorni dalla mancata conciliazione oppure procedere con l’impugnazione giudiziale in Tribunale entro i 180 giorni. In generale, quando il giudice riconosce il licenziamento come illegittimo, favorisce il pagamento di un indennizzo rispetto al reintegro.