In Italia la riforma delle pensioni è sempre stata argomento di grande dibattito. L‘attuale maggioranza politica sta pensando di superare quota 100 e di sostituirla con interventi mirati a protezione di alcune categorie di lavoratori. Al riguardo il Governo Draghi potrà prendere a riferimento la formula di quella che viene denominata RITA, introdotta nel 2017 e che l’ex numero uno della BCE non intende toccare. Vediamo quindi nel dettaglio di cosa si tratta e quali sono gli aspetti positivi.
RITA: cos’è e come funziona
La RITA sta per Rendita Integrativa Temporanea Anticipata e consiste nella possibilità di andare anticipatamente in pensione rispetto ai 67 anni previsti dalla pensione di vecchiaia, a condizione di versare una parte del proprio stipendio nella previdenza complementare tramite un fondo pensione. L’uscita dal mondo del lavoro potrà essere effettuata non prima del compimento dei 57 anni di età e nel caso in cui il lavoratore si trovi in stato di disoccupazione.
Per poter richiedere la RITA è necessario rivolgersi al fondo pensione presso cui si sono versati i contributi. In tal caso il lavoratore ha 2 possibilità: chiedere una parte del capitale accumulato oppure richiedere la somma integrale. Può anche decidere in che intervalli di tempo ricevere la rendita periodica. Infine può esercitare l’opzione d’investimento preferita nella ricezione dell’importo, ovvero scegliere il comparto da cui attingere i fondi. La scelta sarà effettuata verosimilmente in base all’andamento delle attività su cui il fondo pensione ha investito i contribuiti versati. Se il lavoratore non dà alcuna indicazione in proposito, il fondo pensione di solito prenderà il denaro da erogare dal comparto Garantito.
Origini e sviluppi della Rendita Integrativa Temporanea Integrata
Il primo a introdurre questa formula fu il Governo Renzi nel 2017 con lo scopo di mettere una pezza al problema degli esodati che con la riforma Fornero si trovarono senza alcuna possibilità una volta rimasti senza lavoro. Allora però gli anni di pensionamento anticipato potevano essere 5, quindi un lavoratore doveva aver compiuto almeno 62 anni. Inoltre doveva aver versato regolarmente i contributi di previdenza obbligatoria per almeno 20 anni, nonché essere iscritto a un fondo pensione con versamento regolare dei contributi da almeno 5 anni.
Con la Legge di Bilancio 2018 il limite è stato portato a 10 anni. Inoltre erano richiesti altri requisiti come la cessazione dell’attività lavorativa e uno stato di disoccupazione da almeno 24 mesi, nonché essere iscritti a un fondo pensione da 5 anni essendo perfettamente in regola con i contributi. Veniva quindi rimossa la condizione di aver versato i contributi per almeno 20 anni nella previdenza obbligatoria.
I vantaggi per il lavoratore
Il principale vantaggio per il lavoratore che accede alla RITA è ovviamente quello di poter usufruire di una rendita periodica qualora si trovi in una condizione in cui è fuori dal mondo del lavoro, anche per effetto di un’età che difficilmente lo rende inseribile.
Un altro vantaggio riguarda il trattamento fiscale della rendita, che è caratteristico dei fondi pensione. Infatti la tassazione che viene applicata all’imponibile sarà del 15%, un’aliquota molto agevolata rispetto a quella minima del 23% degli scaglioni IRPEF. Inoltre per ogni anno successivo al quindicesimo in cui si sono versati i contributi per la previdenza complementare, è prevista una riduzione di ritenuta dello 0,3%, fino ad arrivare a un massimo del 6%. In buona sostanza, vi è la possibilità di subire soltanto una tassazione del 9% sulla rendita erogata.
Un terzo vantaggio consiste nella possibilità di accumulare la RITA con l’APE sociale. Quest’ultima consiste nell’accesso a un’indennità erogata dall’INPS una volta compiuti i 63 anni di età, a patto però di far parte di una o più delle seguenti categorie:
- disoccupati che da 3 mesi non percepiscono più la NASPI (indennità mensile di disoccupazione) e abbiano versato 30 anni di contributi;
- lavoratori che assistono al momento della richiesta il coniuge o un parente di primo o secondo grado con handicap grave, con 30 anni di contributi;
- invalidi civili con un grado di invalidità pari o superiore al 74% che hanno versato 30 anni di contributi;
- lavoratori dipendenti che abbiano svolto un lavoro particolarmente usurante e con 36 anni di contributi.