Dopo oltre un decennio in cui le azioni growth hanno dominato a Wall Street, quest’anno si è visto un ritorno dei titoli value. La principale motivazione deriva dalla politica monetaria divenuta incredibilmente restrittiva da parte della Federal Reserve di fronte a un’inflazione mostruosa, che negli Stati Uniti non albergava da 40 anni. La Banca Centrale americana si è quindi trovata a optare per la scelta sofferta di aumentare i tassi d’interesse in maniera aggressiva. Dapprima ha attuato un rialzo di un quarto di punto percentuale nel mese di marzo, incrementato allo 0,5% a maggio, per poi passare a un aumento di tre quarti di punto nell’ultima riunione di giugno.
Questo, insieme alla prospettiva di almeno altre quattro strette tra lo 0,5% e lo 0,75% da qui alla fine dell’anno, ha inevitabilmente impattato in modo negativo sui titoli legati alla crescita. Questi ultimi infatti sono emessi da società che puntano molto sugli investimenti e quindi sui ritorni del capitale a lunga scadenza. Quando il costo del denaro diviene più oneroso, finanziarsi sul mercato per sostenere tali investimenti lo diventa altrettanto. Nel contempo i redditi futuri ottenuti come frutto del capitale impiegato hanno un valore minore a oggi, essendo scontati a tassi più alti.
Un’altra motivazione molto forte della rinascita dei titoli value a scapito dei quelli growth riguarda il rally dei prezzi energetici. Questo ha fatto impennare le quotazioni delle società legate a gas e petrolio, che hanno sovraperformato il mercato. Essendo legate maggiormente ai fondamentali, quindi, le compagnie energetiche hanno contribuito ad aumentare la performance generale del value investing.
Azioni value vs azioni growth: ecco le scelte degli analisti
La domanda ora che molti si fanno è cosa succederà nei prossimi mesi, ovvero: continuerà la forza relativa dei titoli value o ci sarà un ritorno delle azioni growth? Intanto bisogna dire che, nonostante questi ultimi abbiano fatto peggio, ancora risultano essere più costosi di quelli value, portandosi dietro rialzi ultra-decennali. Ad esempio, l’indice Russell 1000 Growth è negoziato a 21,4 volte gli utili attesi, mentre l’indice Russell 1000 Value scambia a 13,5 volte i guadagni. Il premio di 7,9 punti comunque risulta essere poco più della metà rispetto a quello di oltre 15 punti del 2021.
L’ultima volta che c’è stato un allineamento dei multipli è stato durante la grande crisi del 2008. Quanto questo allineamento sarà rapido dipende molto dalla Fed, secondo gli analisti. La Banca Centrale americana finirà per essere arbitro della partita tra azioni value e growth, in base all’intensità della sua politica monetaria restrittiva.
Mark Haefele, chief investment officer di UBS Wealth Management, prevede un atterraggio morbido entro la fine dell’anno, quindi con una crescita economica che rallenta, un’inflazione alta ma più moderata rispetto ai recenti livelli e utili societari che non accelerano ma nemmeno diminuiscono in maniera drastica. Tutto questo comporta che i titoli value continueranno a sovraperformare quelli growth, secondo l’esperto, grazie alla continua crescita delle società energetiche e finanziarie che trarranno beneficio da tassi d’interessi più alti.
Secondo il gestore Alger Management, le vendite sulle aziende non redditizie ma ad alta crescita che si sono viste nel 2022 hanno creato sconti considerevoli, costituendo la base per un’occasione di acquisto in un’ottica di più lungo termine. Un’altra interessante opportunità, a giudizio della società finanziaria, riguarda i titoli growth a grande capitalizzazione a più rapida crescita, che in questo momento hanno valutazioni storicamente basse.
Justin Thomson, head of international equity e chief investment officer di T. Rowe Price, invece si focalizza sui confronti rispetto al passato. A suo avviso, nel secondo semestre si faranno paragoni con quello che è successo nel 2021, dove gli utili sono stati molto forti. Questo non è molto vantaggioso per alcuni titoli tecnologici, i quali potrebbero soffrire da alcuni effetti di fine ciclo, come la carenza di competenza e l’inflazione salariale.