Uno dei temi molto dibattuti in USA e in Europa da diverso tempo riguarda il dumping fiscale, soprattutto con riferimento alle grandi multinazionali che producono una buona parte dei loro profitti all’estero e che sfruttano agevolazioni in Paesi a fiscalità agevolata. Entriamo quindi nel dettaglio per scoprire in cosa consiste esattamente il dumping fiscale, da chi viene esercitato e quali possono essere i modi per risolvere la questione.
Dumping fiscale: cos’è e cosa comporta
Il dumping fiscale consiste in una pratica attuata da un Paese sotto forma di bassa tassazione con lo scopo di attirare imprese e investitori provenienti da altre nazioni. In sostanza, si tratta di una forma di concorrenza sleale nei confronti di altri Stati per agevolare il mercato domestico. Per i vari soggetti che sfruttano il dumping fiscale ciò rappresenta un vantaggio perché sono alleggeriti dal carico fiscale – da qui il termine dumping che in inglese significa scaricare. Per il Paese da cui provengono tali soggetti si tratta di un’evidente distorsione fiscale che danneggia le proprie casse. Anche sotto il profilo contributivo si hanno gli stessi effetti, dal momento che il Paese in cui ci sono i maggiori afflussi di ricchezza incassa più contributi rispetto allo Stato dove ve ne sono di meno.
Dumping fiscale: chi vince e chi perde
Chiaramente i Paesi che traggono maggiore vantaggio dal dumping fiscale sono quelli che hanno una tassazione particolarmente favorevole, ancor più se questa si unisce a una burocrazia più snella. Di questa categoria fanno parte in modo speciale l’Irlanda, il Lussemburgo e l’Olanda.
L’Irlanda nel 2022 ha realizzato entrate fiscali per 83,1 miliardi di euro, quasi sei volte i 14,1 miliardi di euro incassati nel 2021. Tali introiti derivano ad esempio per 22,6 miliardi di euro dalle imposte sulle società e per 18,6 miliardi di euro dall’IVA. Il miele che attira in Irlanda colossi come Meta Platforms, Amazon, Pfizer, Alphabet, Apple e Twitter – che hanno stabilito in loco la sede per l’Europa – riguarda una tassazione sul reddito societario appena del 12,5%.
Il Lussemburgo attira più che altro le holding finanziarie che non hanno alcun legame con il territorio. Secondo un’inchiesta condotta nel 2021 dal quotidiano francese Le Monde, nel 2021 circa 140 mila società finanziarie, il cui unico compito era quello di avere partecipazioni in altre imprese, da sole rappresentavano circa l’85% del totale degli asset lussemburghesi. Ciò corrispondeva a un valore di 6.500 miliardi di euro, pari a 100 volte il Pil della nazione. Il motivo che spinge tali aziende a spostarsi in Lussemburgo riguarda le tasse nulle o quasi sui dividendi e sulle plusvalenze finanziarie.
L’Olanda ha attirato una quantità considerevole di società europee che sono diventate di diritto olandese per una questione fiscale ma anche per condizioni favorevoli in tema di distribuzione dei voti multipli, soprattutto per chi vuole conservare il controllo delle decisioni aziendali senza avere il numero delle azioni sufficienti. Nei Paesi Bassi non vi è alcuna imposizione fiscale per quanto riguarda i dividendi, i capital gain, le royalties e altre plusvalenze. Tuttavia, per il 2024 il governo olandese ha annunciato una forma di prelievo nei confronti dei dividendi. Relativamente alle imposte sulle società, l’aliquota che viene applicata è del 20% fino a un utile di 200 mila euro e del 25% per profitti superiori.
Il flusso di reddito che viene prodotto in questi Paesi significa giocoforza la sottrazione di reddito da nazioni “meno virtuose” dal punto di vista fiscale, quindi si materializza il dumping fiscale. Tra gli Stati che pagano maggiormente dazio risultano quelli che hanno una pressione fiscale maggiore, come l’Italia, la Francia e la Germania. Secondo uno studio realizzato nella Commissione Europea di qualche anno fa è stato rilevato che negli ultimi 20 anni il dumping fiscale ha prodotto una perdita di denaro per Bruxelles fino a 70 miliardi di euro annui.
Le soluzioni
Europa e Stati Uniti si sono mosse per cercare di arginare il fenomeno del dumping fiscale con alcuni provvedimenti che, una volta attuati, dovrebbero equilibrare gli introiti fiscali provenienti dal reddito prodotto nei paradisi fiscali.
Alla fine del 2022, i 27 Stati membri dell’Unione Europea hanno concordato di adottare un livello minimo di imposta al 15% per tutte le grandi società. In sostanza, coloro che realizzano entrate combinate superiori a 750 milioni di euro all’anno dovranno corrispondere una tassa almeno del 15%. Ciò significa che se un’impresa europea opera in Irlanda e paga l’imposta sul reddito del 12,5%, dovrà corrispondere al Paese di provenienza un’aliquota integrativa del 2,5%. Fanno eccezione gli enti governativi, le Organizzazioni non governative e i fondi pensione e di investimento. I membri UE hanno un anno di tempo per recepire le regole con una nuova legislazione a livello nazionale.
Anche in USA si sta muovendo qualcosa. L’amministrazione Biden ha proposto la Billionaire Minimum Tax, che consiste in un’aliquota minima del 20% sul reddito prodotto da tutti i contribuenti con un reddito superiore a 100 milioni di dollari. Se il reddito complessivo – inclusi i guadagni in conto capitale non ancora realizzati – è tassato con un’aliquota inferiore, dovrà essere versata la differenza. Mentre è oggetto di discussione la tassazione sul reddito delle società prodotto all’estero, in applicazione dell’impegno sottoscritto insieme a oltre 130 paesi sulla Global Minimum Tax.