Come si fa a riconoscere un licenziamento per rappresaglia e qual è la differenza tra quest’ultimo e un licenziamento discriminatorio? In entrambi i casi, è prevista la reintegrazione del lavoratore o della lavoratrice, ma per il datore di lavoro le conseguenze in termini di trattamento processuale sono diverse. Un caso emblematico è quello avvenuto nel 2021 in Trentino: un operaio africano di una ditta di carni che aveva denunciato il suo superiore (e si era rivolto al sindacato) per non aver rispettato il contratto di assunzione, è stato accusato ingiustamente di minacce, salvo poi essere reintegrato grazie a una sentenza del locale Tribunale.
Licenziamento per rappresaglia: cos’è e quando avviene
Il licenziamento ritorsivo è quello che si verifica quando il datore di lavoro allontana il dipendente unicamente con un intento di rappresaglia. Queste situazioni avvengono in particolare quando lavoratori e lavoratrici chiedono il rispetto dei contratti e dei diritti e di contro le aziende, dopo aver tentato l’arma delle pressioni e delle intimidazioni, inventano accuse totalmente false, non sorrette da motivazioni di carattere oggettivo o soggettivo, sulle quali fondare la causa del licenziamento. Il licenziamento per ritorsione si basa quindi su una vera e propria vendetta del datore di lavoro in reazione ad una condotta lecita ma sgradita del lavoratore.
Il licenziamento per rappresaglia è differente dal licenziamento discriminatorio perché nel secondo caso la differenza ingiustificata di trattamento è dovuta ad un motivo di natura politica, sessuale, razziale, religiosa o linguistica. Altre fonti di discriminazione che portano al licenziamento illegittimo possono essere l’età, una disabilità oppure lo stato di gravidanza per le lavoratrici. A livello processuale, nel licenziamento discriminatorio sta al datore di lavoro dover fornire le prove che il recesso sia fondato su un motivo lecito; nel licenziamento ritorsivo l’onere della prova è a carico del lavoratore o della lavoratrice, che deve fornire la dimostrazione dell’indebita rappresaglia in risposta ad un comportamento assolutamente legittimo.
A tal proposito, i lavoratori possono fornire semplici indizi, detti presunzioni, per impugnare il licenziamento. Tra le presunzioni spiccano le motivazioni addotte per giustificare il recesso dal contratto (se c’è un solo motivo ed è infondato, è un segnale inequivocabile di ritorsione) e la fondatezza della giustificazione che ha portato all’allontanamento. Spesso e volentieri i licenziamenti ritorsivi sono sistematici e rappresentano una costante violazione dei diritti contrattuali di lavoratori e lavoratrici: in questi casi, però, è più facile individuare le motivazioni arbitrarie che inducono i datori di lavoro all’allontanamento ingiustificato.
Esempi e conseguenze del licenziamento ritrosivo
Un classico esempio di licenziamento per rappresaglia avviene quando la ditta o il professionista non osservano le condizioni del contratto di lavoro (ad esempio l’esatto inquadramento o una busta paga falsa, operando trattenute come rimborsi spese, permessi e ferie mai godute o non riconoscendo gli straordinari) e licenziano il lavoratore o la lavoratrice che ne chiedono il rispetto, richiedendo l’intervento di un rappresentante sindacale o di un ispettore del lavoro. L’iscrizione ad un sindacato, la partecipazione ad uno sciopero e una vertenza sono altri tipici esempi di comportamenti che possono condurre ad un licenziamento ritorsivo. Le motivazioni citate alla base del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo oggettivo, mascherano dunque le reali intenzioni che hanno portato all’allontanamento del lavoratore scomodo.
Dal 2020, grazie alla storica sentenza n. 11705 del 17 giugno della Corte Suprema di Cassazione, il licenziamento per rappresaglia è assimilabile a tutti gli effetti al licenziamento discriminatorio, vietato dagli articoli 4 della legge n. 604 del 15 luglio 1966, 15 della legge n. 300 del 20 maggio 1970 e 3 della legge n. 108 dell’11 maggio 1990. La sanzione per il datore di lavoro, ai sensi dell’articolo 2 del decreto legislativo n. 23 del 4 marzo 2015, è l’annullamento del licenziamento, la reintegrazione in servizio del lavoratore o della lavoratrice, il pagamento di un’indennità pari all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR (corrispondente al periodo che va dal giorno del licenziamento fino a quello della reintegra effettiva, non inferiore a cinque mensilità) e il risarcimento del danno.
Nella sentenza n. 17087 dell’8 agosto 2011 che ha coinvolto un’azienda di trasporti di Masio, in provincia di Alessandria, i giudici della Cassazione scrivono che il licenziamento per ritorsione diretta o indiretta “costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione, con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l’unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni”. Il caso è quello di padre e figlia dipendenti della ditta piemontese: l’uomo aveva subito un grave infortunio sul lavoro, con conseguenti lunghe assenze per malattia che avevano condotto l’azienda al suo licenziamento cinque giorni prima della cacciata della figlia, “colpevole” di aver sollevato lo scandalo per il licenziamento del genitore, a tutti gli effetti illegittimo. Dopo che la Corte d’Appello di Torino aveva respinto il ricorso dei due lavoratori, la Cassazione ha ribaltato la decisione accogliendo la domanda di accertamento dell’illegittimità del licenziamento.